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                IL BIBLISTA GILBERT: «L'ARCHEOLOGIA 
                PUO' AIUTARCI A CHIARIRE CERTI NODI DEL VANGELO, MA NON BISOGNA 
                OPPORRE IL GESU' STORICO AL CRISTO DELLA FEDE Così si scava 
                nella Bibbia di Nicolas 
                Seneze Per 
                Gentile Concessione Del Quotidiano «La Croix»(Traduzione Di 
                Anna Maria Brogi)
 La scoperta 
                dell'ossario sul quale compare la scritta «Giacomo, figlio di 
                Giuseppe, fratello di Gesù» ha messo in agitazione nei mesi 
                scorsi gli studiosi della Bibbia e dei Vangeli. Se venisse 
                provato che quella scritta pone in rapporto questo Giacomo con 
                il Gesù dei Vangeli, se ne avrebbero conseguenze rilevanti nella 
                nostra comprensione delle vicende evangeliche. L'archeologia, 
                dunque, può dare agli esegeti nuovi elementi di comprensione 
                storica di ciò che nei Vangeli è sfumato o sottinteso. Il 
                teologo e biblista gesuita Pierre Gibert ha appena scritto a 
                quattro mani con Christoph Theobald il volume edito da Bayard 
                «Le Cas Jésus-Christ» (pagine 476, 29 euro), un saggio che cerca 
                di trarre un bilancio dagli studi storici dedicati alla figura 
                di Gesù. Nell'intervista che qui pubblichiamo, lo studioso 
                gesuita mette in evidenza l'utilità che gli studi archeologici e 
                storici possono avere per gli esegeti biblici e la comprensione 
                più oggettiva dei Vangeli.
 Come si pone il credente nei confronti 
                dell'archeologia biblica? E qual è il rapporto tra il Gesù della 
                storia e il Cristo della fede? Ne parliamo con il gesuita Pierre 
                Gibert, biblista e teologo.
 Nella ricerca archeologica recente ha suscitato un certo 
                clamore il ritrovamento di un ossario recante l'iscrizione: 
                «Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù». Come reagisce 
                l'esegeta di fronte a una scoperta del genere?
 «In questo campo 
                l'esegeta si limita a prendere atto di quanto affermano 
                l'archeologo e l'epigrafista. Si ha davanti un insieme di dati, 
                ma si cammina sul filo. Bisogna limitarsi a dire: "È molto 
                probabile che...". Infatti nel primo secolo a Gerusalemme 
                c'erano parecchi Giacomo, Giuseppe e anche Gesù, per quanto 
                André Lemaire dimostri che le possibilità di combinazione di 
                tali nomi sono limitate. L'elemento più inquietante è che sia 
                nominato il fratello del defunto: evidentemente era un 
                personaggio importante. D'altra parte, inquieta anche il fatto 
                che non conosciamo la provenienza dell'ossario, né sappiamo in 
                quali condizioni sia stato ritrovato».
 
    Se la 
                scoperta si dimostrasse esatta, non creerebbe qualche difficoltà 
                ad alcuni dati di fede?     «In effetti, chi 
                mette tutto sullo stesso piano potrebbe restarne turbato, o 
                arrivare addirittura a negare la scoperta. Ma se l'ossario 
                appartenesse davvero a quel Giacomo, ne risulterebbe turbato non 
                il cuore della fede bensì, al massimo, certo modo di intendere 
                la verginità di Maria. Bisogna chiedersi infatti qual è il 
                fondamento dei dogmi cristiani: è la Resurrezione. I Vangeli di 
                Marco e di Giovanni non si interessano alla genealogia di Gesù. 
                L'importante, per loro, è sapere chi è davvero Gesù: è il Figlio 
                di Dio. Occorre, dunque, gerarchizzare gli elementi di fede e, 
                in questo, l'archeologia si pone al nostro servizio senza 
                aggiungere nulla di suo». Dunque, il Gesù storico non si contrappone al Cristo della 
                fede?
    «Il Gesù della storia 
                è necessario al Cristo della fede come l'aria per respirare. 
                Credendo che Gesù è il Figlio di Dio, ossia credendo che Dio si 
                è incarnato, non si può prescindere dal Gesù storico. Al tempo 
                stesso permane una tensione, perché l'affermazione che Dio si è 
                fatto uomo è inaudita e contraddittoria. Restando ferma la 
                distinzione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, il 
                modo più intelligente di affermare questa realtà evita di porre 
                una contrapposizione di principio. Il Gesù della storia non può 
                esistere senza il Cristo della fede, e viceversa. Se li si 
                contrappone viene meno il dogma cristiano, poiché in tal caso si 
                finirebbe per negare sia l'umanità, sia la divinità del Cristo».È sbagliato, dunque, pensare che l'archeologia possa 
                "dimostrare" la Bibbia o che, al contrario, possa provare che si 
                tratta di un mito?
 «Non siamo più nel XIX secolo, quando si pensava 
                che dall'archeologia sarebbero venute conferme o smentite. Oggi 
                l'archeologia rivela soprattutto quello di cui non parlano i 
                testi. Questi prendono sempre un po' le distanze dai luoghi in 
                cui si inseriscono, mentre l'archeologia tiene conto soprattutto 
                dei monumenti. Chi volesse scrivere un testo sugli 
                Champs-Elysées parlerebbe necessariamente dell'Arco di trionfo. 
                Nel futuro si dirà, per questo, che erano un mito?»
 Non c'è più motivo di contrapporre l'esegeta e lo 
                storico?
 «Al contrario. Non riesco a pensare a un esegeta che, un 
                po', non sia anche storico. Del resto, per due terzi la Bibbia è 
                un libro storico. Anche gli evangelisti hanno voluto fare della 
                storia, che però bisogna ricollocare nel suo contesto, che è 
                quello dell'Antichità e dei loro intenti di catechisti o persino 
                di liturgisti. Dobbiamo necessariamente scendere su questo 
                terreno. Accostandoci alla storia, certamente si è obbligati a 
                porsi le domande dello storico: la verosimiglianza, il grado di 
                storicità, le fonti... A venti secoli di distanza dagli 
                avvenimenti la storia resta fondamentale ed è ancora 
                interessantissimo confrontarci con i suoi dati e con quello che 
                può dirci del contesto in cui si colloca il testo».
 Ad esempio?
 «C'è stato tutto un lavoro storico sul contesto ebraico 
                al tempo di Gesù. Lo storico ci insegna che l'ebraismo era più 
                complesso di quanto si pensasse. C'erano correnti diverse e 
                antagoniste. Così, il cristianesimo nascente si inserisce bene 
                in quell'ebraismo del primo secolo: in armonia con alcune 
                correnti e opposto ad altre».
 In quest'ambito lo storico e l'esegeta sono venuti in 
                aiuto del credente...
 «Oggi l'esegesi è un dato per tutti coloro che intendano 
                approfondire la fede o che vogliano riflettervi, come i teologi. 
                L'esegesi ha le sue tecniche e i suoi metodi per portare alla 
                luce tutto il senso di un testo. In tal modo si arriva a dire 
                che un testo è più ricco di quanto si pensasse, o che va in 
                tutt'altra direzione. L'esegesi può anche servire a tracciare un 
                limite: se sono particolarmente interessato agli approcci 
                psicologici alla Bibbia, sono anche costretto ad ammettere che 
                si dicono molte sciocchezze al riguardo!
 Tuttavia, compito dell'esegesi non è stabilire quale sia il dato 
                di fede o come si debba credere: nel XVII secolo l'esegesi è 
                nata dalle difficoltà nella comprensione del testo. Non è dunque 
                a servizio della fede, o almeno non direttamente: innanzitutto 
                cerca di rispondere alle difficoltà che il testo può presentare 
                al lettore».
 - Fonte: Avvenire (12.12.04) 
                     
					
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